giovedì 17 ottobre 2013

OLI 386: IMMIGRAZIONE - Il sogno americano sarà mai italiano?

“Rachid il laureato”, titolava così pochi giorni fa Repubblica e i Tg hanno dedicato gioiosi servizi alla storia del giovane marocchino, 26 anni, arrivato quattordici anni fa con i fratelli e laureatosi al Politecnico di Torino, vendendo accendini e fazzoletti. I compagni stralunavano ad incontrarlo fuori dalle aule, ma poi è diventato uno di loro, la gioventù non è così classista.
Un vanto per la nostra Università, frequentata da 66 mila stranieri, di cui 52 mila extracomunitari, un bel traguardo per il ragazzo immigrato e anche per il Bel Paese perché significano nuova linfa, nuovi talenti, che diventeranno parte della nostra società, così vecchia e così giovanilmente “ignorante” per competenze alfabetiche, secondo l’Ocse in coda ai Paesi occidentalizzati.
Il Sole 24 ore, nel suo inserto di Economia e Società del 29 settembre, pochi giorni prima di Lampedusa, dedicava una pagina  “all’immigrazione che fa profitti”, gli immigrati sono anche produttori e consumatori. Provocatorio e un po’ “leghista”,  l’articolo analizzava invece pacatamente il saggio di Alvaro Vargas Llosa “Global Crossing: immigration, civilization, and America”: riguardo l’immigrazione non c’è nulla di nuovo e nulla da temere, si sottolineava, se non i luoghi comuni.
Oggi l’immigrazione internazionale pesa per il 3% della popolazione mondiale e la questione islamica ne riguarda una percentuale modesta,  mentre l’argomento migliore su cui giocano i “chiusisti” è l’idea che la ricchezza, ovvero l’occupazione, sia una torta da fare a fette, ogni lavoro ad un immigrato sottrae pane ad un lavoratore autoctono. Ma, rileva l’autore, se così fosse, come mai negli Usa dal 1950 fino alla crisi del 2008, quando si è triplicata la forza-lavoro composta pure da tanti  immigrati, non si era mai registrato alcun aumento a lungo periodo nel tasso di disoccupazione?
Si dirà poi che gli immigrati competono in prevalenza per lavori a bassa specializzazione, vanno a danneggiare una categoria di lavoratori fra i più deboli; ma sostiene Vargas, “gli immigrati hanno quasi per definizione spirito imprenditoriale”: un sesto delle start up  statunitensi è sorto per iniziativa di un americano di prima generazione. Cita esempi illustri, come Sergey Brin di Google, che lasciò la Russia da bambino, Pierre Omidyar, fondatore di Ebay, figlio di immigrati iraniani, Jerry Jang, di Yahoo, arrivato da Taiwan.
Nel nostro Paese una larghissima maggioranza di nuovi imprenditori sono stranieri, anche sotto casa vediamo tanti negozi di frutta e verdura un tempo spariti e ora riaperti da immigrati, che cercano una chance di vita dignitosa, aiutano la nostra economia. Eppure in Italia ci vogliono fino a ventiquattro mesi per ottenere lo stato di rifugiato, e aridi, realistici conti rilevano che un rifugiato costa trenta euro rispetto ai centosedici di un detenuto.
Curiosamente, nell’Europa, che pure considera la libertà di movimento uno dei suoi pilastri, solo un europeo su dieci è nato da genitori stranieri: al di là della pietas per il cimitero del mare, forse siamo noi del civile Antico Continente i veri chiusisti.
(Bianca Vergati - foto di Giovanna Profumo)


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